La morte ai tempi della pandemia ovvero quando ci viene rivelata la sublime e intricata struttura delle radici di un albero millenario.
Mi ritrovo a dover scrivere il mio lavoro di laurea, una tesi sulla morte, confinata in casa ai tempi del coronavirus, questo nemico invisibile che ha paralizzato dapprima la Cina, poi l’Europa e il mondo intero. Una testi sulla morte ai tempi della pandemia, che ironia della sorte ! Proprio nel momento in cui sono tenuta a descrivere come i filosofi dell’antica Grecia combattevano contro la paura della morte, spiegando che solamente facendovi fronte si poteva vivere bene, i nostri medici combattono ad armi impari contro il numero crescente di persone infettate che necessitano di cure immediate e contro l’insufficienza di risorse sanitarie, orchestrati dalla direttrice più diligente che sia mai esistita, ovvero la morte. E mi chiedo, ora che anche l’università ha chiuso i suoi battenti e quelli della biblioteca, cosa possono le parole e la filosofia in questo momento? Con che presunzione mi ritrovo a battere sulla mia tastiera, mentre anche i miei credi vacillano?
Io non voglio rassicurarvi, e mi è impossibile trovare una qualsiasi risposta a questa situazione che altro non fa che accrescere dubbi e incertezze. Siamo tutti nudi, semplici esseri umani, in presenza della morte. Forse è proprio questo che più ci spaventa: non siamo più il popolo della polis della Grecia antica che tremava di fronte all’idea di dover attraversare il fiume dell’Acheronte e passare l’eternità in un aldilà orribile. Di fatto, come scriveva Saffo, “pure gli dei credono che la morte, l’aldilà, sia orribile, altrimenti morirebbero anch’essi”. Non tremiamo più di fronte all’idea di ciò che avviene dopo la morte: “se nessuno è mai tornato, l’aldilà non può essere così orribile”, diceva mio nonno. Eppure… eppure questo nemico invisibile ha confinato il mondo intero in casa, ha spinto le persone a ritornare all’essenziale (e tornare all’essenziale oggi non rima con coltivare l’essenza, l’indispensabile, ma rima con il nostro lato più animale e incivile, giacché la società conta poco a confronto del timore della propria morte) e a svuotare interi negozi di alimentari. Non tremiamo più di fronte al destino che gli Dei ci riservano, ma è la morte in sé che ci spaventa. Noi, mortali creature che forse abbiamo proprio dimenticato che di tale mortalità è fatta la nostra sostanza, noi, sudditi costretti a inginocchiarsi di fronte all’evidenza della nostra essenza mortale, mentre ancora, col nostro carrello pieno di carta igienica, vorremmo elevarci a dei.
Non possiamo farci nulla e forse il problema è proprio questo: ci siamo resi conto che contro la signora in nero, in fin dei conti, noi, che abbiamo viaggiato anche al di là dell’immaginabile, fino alla luna e oltre, non possiamo proprio nulla. Abbiamo perso la coscienza della morte e perdere la coscienza della nostra propria essenza non può che portarci alla deriva. Pensiamoci: il nostro essere è essere, scusate il gioco di parole, esseri mortali: né dei, né idee (per dirla in senso filosofico), ma le loro terrestri creature. Dimenticare che la morte caratterizza la nostra essenza, non può portare a nulla di buono. “Ma la vita si definisce come ciò che si oppone alla morte!” Potrebbe ribadire qualcuno. Certamente, ma ciò non costituisce un’obiezione a quanto ho detto prima. Di fatto, la vita, per essere definita, necessita della morte. Cos’è la vita in senso filosofico? Non lo sappiamo. Cos’è la morte? Non lo sappiamo. Ciò che sappiamo è che l’una, preda della dicotomia che c’imprigiona da quando ci formiamo nel ventre materno, non può esistere senza l’altra. Potrei chiedervi d’intraprendere un esercizio di pensiero, e domandarvi cosa fareste se foste immortali, come aveva fatto un professore di etica, al quale un allievo aveva prontamente risposto “mi suiciderei”, ma non credo possa servire a qualcosa, dal momento che ognuno di noi, oggi, deve già far fronte all’idea della propria mortalità.
Ciò che posso fare, è ricordarvi che, come cantava qualcuno, “è dal letame che nascono i fior”. Vi invito dunque ad abbracciarla questa consapevolezza: è un regalo, è una luce dopo più di duemila anni di oscurantismo. Fa male, indubbiamente. Cadere dal piedistallo fa male, figuriamoci cadere dall’Olimpo! Noi, esseri mortali che troppo spesso ci eleviamo a dei, confinando la nostra mortalità a qualcosa di lontano, inesistente, eventuale (accade in Cina, non qui), finché la consapevolezza non ci strattona violentemente riportandoci sulla terra. Fa male, fa paura, crea insicurezza, ma è solo da qui che possiamo ripartire per fondare una nuova esistenza. “Io vi dico: si deve avere ancora del caos dentro di sé per poter generare una stella che danza. Io vi dico: avete ancora del caos in voi”, gridava Zarathustra al popolo. Accogliamolo questo caos, questa consapevolezza… lo abbiamo già fatto in passato. Di fatti, ricordiamoci che è proprio dalla coscienza della finitezza umana che sono nate la filosofia e la propulsione dell’uomo a viaggiare nel proprio microcosmo interiore per poter in seguito dirigere il proprio sguardo verso le stelle. L’uomo diventa cosciente della sua propria mortalità, cerca di capirla e espande dunque il suo ragionamento (logos) a qualcosa che sia infinito (l’idea dell’eternità) e, infine, rivolge nuovamente il suo sguardo su di sé, chiedendosi in ultima istanza cosa possa fare per non temere la morte e vivere bene. Questo è ciò che la filosofia ci insegna con la metafisica che, con Platone, nasce come una riflessione sulla morte. Ecco perché Schopenhauer descrive la morte come “il vero genio ispiratore e il musagete della filosofia, senza la quale quest’ultima non sarebbe potuta esistere”.
La filosofia della Grecia antica si fonda sulla morte, e ha come obiettivo quello di fare che le persone non la temano e vivano bene, dove vivere bene non significa dimenticarsi della propria condizione mortale, ma abbracciarla. Ciò che ci separa da questa concezione della morte, esseri umani del duemilaventi in quarantena per proteggerci da un nemico invisibile, sono ben più di duemila anni, l’avvento della religione cattolica, la rivoluzione scientifica e ben più d’una rivoluzione ideologica. Così, oggi in Europa, dimenticata la dottrina filosofica secondo la quale non bisogna temere la morte per poter vivere (e morire) bene, annientata a nome della laicità la paura instaurata dalla religione cattolica di un aldilà infernale dove i peccatori sarebbero stati puniti, ci ritroviamo prede di un meccanismo etico di fondo (nato dalla dicotomia tra bene e male, morte e vita) che ci imprigiona come la tela di un ragno imprigiona gli insetti che vi si posano. I progressi scientifici, a partire dal dualismo cartesiano, hanno avuto come obiettivo quello di allungare la speranza di vita; di fatto, Cartesio credeva che conoscendo come curare il corpo, l’essere umano sarebbe stato in grado di vivere anche dei secoli… questo prima di morire, ironia della sorte, poco più che cinquantenne. Per la nostra società, la morte può e deve essere annientata, perché in essa risiede il male più grande. Meglio ancora, non pronunciamone nemmeno più il nome: “si è spento”, “ci ha lasciati”… ecco, la morte non esiste più.
Qualche mese fa mi chiedevo, scrivendo il mio lavoro di tesi, se fossimo riusciti, un giorno, a liberarci da questa tela prima di venir divorati dal ragno dell’arroganza umana di credersi onnipotenti… oggi, mentre la parola “morte” fa nuovamente capolino nella vita di tutti, prepotentemente, giacché non potrebbe manifestarsi altrimenti, anche i miei credi vacillano. Vacillano i credi della società nella quale vivo, e dove vedo esseri umani disperati di fronte alla propria condizione mortale. Vedo la paura per l’altro, lo sconcerto di fronte all’idea che la morte, tuttavia, esista. Vedo esseri umani ai quali proprio lei, ciò à cui la vita s’oppone, ricorda di essere tutti parte della stessa umanità. E allora abbracciamola, questa condizione inevitabile. Non temiamola, non rassegniamoci a essa: lottiamo e usciamone come une nuova splendida umanità mortale.